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TARE racconta la sua esperienza in Germania: “Senza gli scettici non sarei dove sono”

Il diesse biancoceleste ricorda: “I primi tre anni in Germania sono stati i peggiori della mia vita. Ero solo, ma ho sbagliato perché spesso mi sono chiuso in me stesso”…

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NOTIZIE SS LAZIO – Intervistato dalla rivista sportiva 11Freunde, il diesse della Lazio Igli Tare ha ripercorso la sua storia raccontandosi sulle pagine del giornale tedesco.

Igli Tare, quando eri calciatore venivi spesso fischiato dai tifosi, oggi sei il direttore sportivo della Lazio. È una rivincita contro quelle persone?
“Niente affatto. Non ho mai combattuto contro altre persone, lotto solo per me. Negli anni ho capito che ognuno di noi ha un destino prestabilito”.

Quindi non hai mai avuto la sensazione di essere sottovalutato?
“Alcune esperienze negative mi hanno aiutato, mi hanno dato la forza di continuare a lavorare su di me. Ringrazio tutti gli scettici, perché senza di loro non sarei dove sono oggi”.

Sfogliando la tua vita, si nota che brulica di scettici…
“Ho incontrato anche molte persone che mi hanno aiutato. Io all’età di 17 anni sono arrivato in Germania dall’Albania, con me avevo solo con una valigia e il sogno della Bundesliga. In una fredda notte d’inverno, tra boschi e neve profonda, due uomini mi fecero superare il confine ceco-tedesco per la cifra di 800 euro. Una volta arrivato a Monaco, chiamai l’unico contatto che avevo in Germania: due cugini che vivevano a Ludwigshafen. Mi portarono con loro”.

Perché sei scappato dall’Albania?
“Io non demonizzo ogni cosa, anzi. Con gli occhi di oggi mi sembra di non essere stato poi tanto male. Ma naturalmente l’Albania in quel momento non era un posto ideale per diventare un grande calciatore professionista. Ricordo il clima politico di quei tempi, la dittatura, il comunismo sempre più oppressivo per un giovane. Un giorno il mio insegnante di fronte alla classe mi citò come un esempio negativo, indicò i miei capelli lunghi e disse: “Così è come non dovete andare in giro”.

Ma non guadagnavi male come calciatore professionista…
“Ho goduto di alcuni privilegi, è vero, ma dopo il crollo del sistema politico è cambiato tutto. Con l’inflazione improvvisamente non avevo assolutamente più soldi. Il mio club, il Partizan Tirana, era ben organizzato, ma ho voluto realizzare il mio sogno di giocare a calcio in Bundesliga. Così mi sono messo in cammino. Oggi dico che è stata una pazzia, avrebbero potuto spararci durante la fuga e nessuno l’avrebbe mai saputo. I miei genitori devono aver sopportato i più grandi tormenti, ma in quel momento la mia volontà ha avuto la meglio”.

Come sono stati i primi anni in Germania?
“I primi tre anni in Germania sono stati i peggiori della mia vita. Ero solo, ma ho sbagliato perché spesso mi sono chiuso in me stesso. Non mi sono sforzato di comprendere la cultura tedesca, non riuscivo a parlare la lingua, non avevo amici. In Albania avevo 15 anni quando ho debuttato in Prima Divisione e ho giocato in Under 21. In Germania ho dovuto ricominciare da zero”.

Come è stato questo nuovo inizio?
“In primo luogo, ho dovuto chiedere asilo. Poi sono passato da Walter Pradt, un dipendente della Social Welfare di Ludwigshafen, mi ha assegnato un lavoro come giardiniere. Alcuni giorni ho pensato che fosse tutto fantastico, ero in Germania e svolgevo un lavoro onesto. Altri giorni mi vergognavo, venivo da una buona famiglia e volevo essere un calciatore professionista in Bundesliga. Spesso mi sono tirato giù il cappuccio per coprirmi il volto in modo che nessuno potesse riconoscermi”.

Come sei arrivato a giocare nel tuo primo club?
“Walter Pradt, l’uomo dai servizi sociali, era anche un allenatore di calcio. Gli devo molto perché mi ha portato in squadra. Ma la mia testa era così sovraccarica di problemi personali che non sono riuscito a impormi”.

Cosa hai imparato in quegli anni?
“Ho capito che nel calcio si deve avere la testa sgombra. Poi io avevo un grande handicap: ero un calciatore sconosciuto che veniva da un Paese sconosciuto. Se c’è un brasiliano, un argentino e un albanese, un allenatore di calcio mostra interesse solo per i sudamericani. Lo scetticismo del mister, dei giocatori e dei tifosi ha plasmato il mio carattere e la mia volontà”.

Poi ci fu il passaggio al Karlsruhe…
“Questa storia è veramente straordinaria. Durante la stagione 1994-1995 ho giocato solo saltuariamente con il Southwest Ludwigshafen. Un giorno mi offrirono una provino con il Karlsruher SC. Ero sbalordito, il KSC era a quel tempo una delle migliori squadre in Germania, tutti avevano ancora in mente le immagini del 7-0 contro il Valencia. Ho dovuto fare due provini preliminari. Quando sono entrato in campo, Thomas Hassler (allora centrocampista del Karlsruher e campione del Mondo con la Germania nel 1990) sembrava scettico e mi chiese chi fossi. Dissi il mio nome, spiegai la mia posizione e sperai che non mi chiedesse il club di appartenenza”.

Ma lo fece…
“Ho risposto che giocavo a sud-ovest di Ludwigshafen. Lui si mise a ridere… e chiese: “E’ un club?”.

Nessuna accoglienza calorosa…
“Ma forse questa è stata la mia fortuna, perché ho ​​combattuto come un pazzo per ritagliarmi uno spazio. Più tardi Hassler venne da me e disse: “Ragazzo, puoi calciare anche con il destro!”. Nel tempo siamo diventati anche buoni amici, mi ha insegnato molto”.

Che cosa è successo dopo?
“Mi sono allenato per tre settimane, al termine delle quali avrebbero dovuto dirmi se ero riuscito a guadagnarmi un contratto. Cercai di parlare con l’allenatore, Winfried Schäfer, ma non era così facile”.

Perché no?
“Lui mi ignorava. Dopo esattamente tre settimane ho pensato che doveva darmi una risposta. Così mi sedetti sul parcheggio della sede, riuscivo a scorgere il suo ufficio. Vedevo che lui mi stava guardando, ma non accennava ad alzarsi. Passai delle ore così, quando finalmente a sera tarda lasciò l’ufficio e si precipitò direttamente nella sua auto. Mi avvicinai e mi disse: “Igli, uno che è così testardo può restare “. Così ho ottenuto il contratto, ma come dilettante. Ero una specie di semi-professionista. Di settimana in settimana il mister decideva se mandarmi in prima o seconda squadra”.

Come ti sei comportato con il Ludwigshafen?
“Ho rispettato la firma del contratto. Ma già dopo il primo allenamento scoppiò la bomba. Eravamo seduti in macchina e ascoltavamo la radio, quando annunciarono il primo acquisto del KSC… Igli Tare che viene dal Ludwigshafen. Ci fu un silenzio di tomba, tutti mi guardavano e io non sapevo cosa dire. Il mio compagno di squadra Stefan Malz ruppe il silenzio: “Come puoi fare una simile?”. Poi ci fu la cerimonia d’addio: il nostro capitano, Michael Roth, fece un brindisi per me. Io dissi: “Guardate questa faccia, la rivedrete ancora molte volte in tv e direte: “Ho giocato insieme a lui!”.

Al KSC hai giocato raramente in prima squadra, eppure hai attirato l’attenzione di altri club professionistici. Perché?
“Sono stato fortunato, in quegli anni ho incontrato la Germania quattro volte nelle qualificazioni alla Coppa del Mondo. Ogni partita è stata molto combattuta, ho sempre fatto una buona impressione. La partita più importante contro la Germania è stata la prima: una gara valida per le qualificazioni ai Mondiali in Francia, correva l’aprile del 1997. Mi marcava Jürgen Kohler, uno dei miglior difensori in tutto il mondo. La mia fu una grande partita, alla fine perdemmo 3 a 2. Quella sera la Germnia mi ha conosciuto”.

Parliamo ora del Fortuna Düsseldorf, la tua svolta?
“Sì, in assoluto. Mentre ero in Seconda Divisione ho avuto finalmente un posto da titolare in una squadra di professionisti. La città, l’ambiente, i giocatori, i tifosi, era tutto perfetto. È stato il momento migliore della mia vita. Quando retrocesse, piansi amaramente”.

Eppure l’offerta dei campioni di Germania in carica non si poteva rifiutare…
Trovai strano che il Fortuna Düsseldorf non mi presentò nessuna nuova offerta di contratto. E improvvisamente si presentò davanti a me Otto Rehhagel, allenatore del Kaiserslautern. Anche in questo caso erano molti gli scettici, soprattutto tra i tifosi”.

Quale è stato il motivo?
“Molte persone mi conoscevano dai tempi del Ludwigshafen, sapevano che ero un rifugiato, un richiedente asilo”.

 Ma i tifosi amano queste storie. L’eroe che parte dal basso e arriva in cima…
“Alcuni sì, altri magari sono…(pensa, ndr)”. 

Invidiosi?
“Sì, forse invidiosi. Ma soprattutto scettici. Il Kaiserslautern aveva disputato un quarto di finale di Champions League nel 1999, annoverava tra le sue file leggende come Olaf Marschall o Youri Djorkaeff”.

Non sei mai stato un grande realizzatore, eri più devoto al gioco di squadra…
“In Germania cercavo più spesso la conclusione, ero l’unico attaccante che creava spazi per l’attaccante. In Italia ho trasformato completamente il mio gioco”.

Come ti giudichi calcisticamente?
“Sono sempre stato obiettivo. Ho sempre detto che ci sono giocatori di classe mondiale, buoni giocatori e giocatori normali. Io non mi considero un giocatore di classe mondiale, ma nemmeno come un giocatore normale. Mi ritengo un buon giocatore. Il mio problema è che non ho mai ricevuto elogi, anche al Kaiserslautern, nonostante il mio ottimo rendimento con il Fortuna-Dusseldorf”

Non è andata così bene a Kaiserslautern…
“Alla mia prima stagione avevo fatto un solo gol fino alla 32esima giornata. Il 29 aprile del 2000, data del match contro l’Ulm 1846, quando entrai in campo lo stadio mi fischiò. Questo mi ha motivato da matti. Mi sono detto, hai 90 minuti a disposizione, mi vedrete corre come mai!”. Ho fatto la partita della mia vita, segnando quattro gol. Alla fine i tifosi mi hanno festeggiato con canti e mi chiamavano ‘Igli Tare, dio del calcio’. Che giornata!. Il calcio è così, in 90 minuti passi dall’essere un brocco a un dio. Ogni sessione di allenamento e ogni partita può raccontare una storia completamente nuova”.

Dopo quel match credevi che saresti stato schierato titolare…
“Naturalmente contro il Friburgo credevo che sarei partito dall’inizio, ma Rehhagel non la pensava allo stesso modo. Mi ignorò completamente e ancora oggi non ne comprendo il motivo”.

Qual è il tuo rapporto oggi con Otto Rehhagel?
“Siamo amici, a volte è venuto a trovarmi a Roma. È una persona molto speciale, gli sarò grato per tutta la mia vita grato perché mi ha preso quando militavo in Seconda Divisione e mi ha portato nella squadra campione di Germania in carica. Rehhagel ha sempre fatto le cose di testa sua, ma a quel tempo, prima della partita di Friburgo, venne influenzato da altre persone. Mi ha descritto la situazione più tardi”.

Ti ha chiesto scusa?
“Un anno dopo mi ha chiamato perché la Grecia era capitata nel girone di qualificazione agli Europei con l’Albania e lui, in qualità di nuovo allenatore dei greci, venne a guardare una partita a Tirana. Ci siamo incontrati in una specie di tenda VIP, dove c’erano molti giornalisti e giocatori. Quando sono andato a salutarlo, si è fermato improvvisamente e mi ha detto: “Igli, vorrei chiederti scusa davanti a tutti! Non averti schierato contro l’Ulm è stato un grosso errore! È stata l’unica volta che mi sono fatto influenzare da altre persone”. Non dimenticherò mai quelle parole, quel giorno ho capito che grande uomo fosse”.

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