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Acerbi: “Senza il tumore avrei smesso col calcio”

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Pubblicato il 24/02

ACERBI INTERVISTA LAZIO – Francesco Acerbi è tornato a parlare della sua esperienza alla Lazio, soffermandosi sui suoi momenti difficili e la successiva svolta in carriera. Queste le sue parole a L’Ultimo Uomo.

L’intervista a Francesco Acerbi

«Io giocavo per mio padre. Ci teneva molto, forse troppo. Sicuramente più di me. Forse a volte puntava talmente tanto su di me che volendo farmi bene arrivava a farmi male. A farmi perdere la passione. Fatto sta che una volta che lui non c’è più stato io non avevo nessuno per cui giocare. Di certo non per me. Non avevo la testa da professionista. Non avevo rispetto per me, non avevo rispetto per il mio lavoro, non avevo rispetto per chi mi pagava. Spesso arrivavo al campo alticcio, senza aver recuperato dai superalcolici della sera prima. Mi andava bene perché fisicamente sono sempre stato forte. Mi bastava dormire qualche ora e poi in campo rendevo comunque. Le serate non sono sbagliate a prescindere, il problema è che allora io esageravo».

Il Milan

«Non avevo paura della grande squadra non perché fossi coraggioso ma perché non me ne fregava niente. Volevo solo divertirmi e giocare. Braida mi aveva detto che sapevano del mio stile di vita e per questo mi avevano trovato casa a Gallarate e non a Milano. Ma io uscivo lo stesso. Anche il numero 13 (ereditato da Nesta, ndr) non l’avevo scelto io. Era stato Galliani a dirmi che l’avrei dovuto prendere. A me faceva piacere ma non davo la giusta importanza a niente. Nemmeno ad essere al Milan, nemmeno al numero di maglia».

Acerbi e l’idea di smettere

 «Diciamo che in quegli anni ero un po’ ignorantello. Pensavo a fare le mie due ore di allenamento, arrivavo tra i primi al campo, davo tutto e per me ero a posto così. Non pensavo minimamente a tutto il resto. A fare una vita da giocatore professionista anche oltre a quelle due ore. Volevo smettere di giocare. Non mi interessava più, non trovavo più stimoli. Lo dicevo al telefono a mia madre quando ci sentivamo e lei poveretta non sapeva bene cosa dirmi. Lo dicevo anche a Paloschi, eravamo legati: Palo voglio smettere, non ce la faccio più. Dai Ace che cazzo dici? Tieni duro! mi rispondeva lui». 

La fiducia in se stesso

«Ero certo di essere forte. Di essere più forte di molti altri. Solo mi andava bene così e se non giocavo mi arrabbiavo con gli altri e mai con me stesso. Mandavo tutti a quel paese senza iniziare a curare ogni aspetto, la mia vita, tutti quei dettagli che fanno davvero la differenza».

La svolta

 «Il cancro è stato la mia fortuna. Ringrazio il Signore per averlo avuto. Ho scoperto di essere ammalato a luglio del 2013, appena arrivato a Sassuolo. Operazione e dopo tre settimane ero di nuovo in campo. Non me ne sono nemmeno accorto e dunque non era cambiato niente. Continuavo a comportarmi da non professionista fuori dal campo». Neanche la ricaduta a novembre cambiò le cose: «Non volevo dargliela vinta, questo sì. Battevo i pugni sul tavolo, mi mettevo a gridare in casa da solo esci dal mio corpo, vai via! però in sostanza continuavo a fare la vita di sempre. Le serate, le bevute. Reagivo così alla malattia, stando fuori fino alle 7 del mattino. Continuavo a chiedermi perché la malattia non mi stesse cambiando. Perché non avessi paura. Mi stupivo di restare sempre lo stesso».

Dalle serate agli allenamenti

 «Forse qualcosa stava cambiando. La certezza l’ho avuta quando uscendo a cena con lui, la sera, sentivo il bisogno di bere poco alcol. Mi ricordo anche che facevo una cosa strana: ad ogni bicchiere di vino o birra facevo seguire un bicchiere d’acqua, come se sentissi di dovermi depurare. C’era anche chi mi stava attorno per secondi fini, facendomi del male. Ho capito che andava allontanato. Che dovevo tenere attorno a me solo chi mi voleva davvero bene».

Oggi

«Nella mia testa questo non è il mio punto d’arrivo e l’Acerbi di oggi non è il miglior Acerbi possibile. Se così fosse vorrebbe dire sedersi. Non voglio avere nessun punto d’arrivo. Voglio solo pensare a migliorarmi, a ragionare giorno per giorno. Il mio punto d’arrivo sarà quando smetterò di giocare. Ora devo solo pensare a fare il meglio possibile in ogni minima cosa. Poi si vedrà alla fine. Alla fine della stagione, alla fine della carriera». Un altro momento è stato fondamentale: «A un anno dalla malattia mi è successa una cosa. Sono andato a dormire una sera come niente fosse, la mattina mi sono svegliato assalito dal terrore. Avevo paura della mia ombra. Pensavo alle preoccupazioni date ai miei, alle occasioni che avevo buttato all’aria, agli anni sprecati, alle serate di eccessi. Tutto assieme, tutto all’improvviso. Dovevo andare da un analista per superare le paure. Così ho iniziato un percorso che mi ha portato a migliorare come uomo. Limando gli aspetti del mio carattere che potevano farmi naufragare, sbloccando certi miei limiti». 

La fame con la Lazio

 «Adesso voglio tutto.Senza la malattia sarei finito a fare una carriera in Serie B, o magari avrei smesso. Per fortuna lassù qualcuno mi ha voluto bene e mi ha mandato la malattia. Senza sarei finito malissimo. Nessuno mi avrebbe salvato. Oggi sono soddisfatto della persona che sono diventato, nonostante tutti i miei difetti».

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