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Sogni e lampi verdeoro: Felipe Anderson dice addio alla Lazio
È iniziato tutto con un video. Uno di quelli che girano su Youtube. Perché il nome, in orbita Lazio, circolava da tempo. Le immagini scorrevano. C’era Neymar Jr, allora enfant prodige del calcio brasiliano, con la 11 sulle spalle. Ma c’era altro. C’era Felipe Anderson. Vestiva la numero 10 del Santos. E, in Brasile più che in ogni altro angolo del mondo, non è un dettaglio. Era la spalla perfetta della star. Eppure, la Lazio vide in lui le stimmate del grande calciatore. Decise di portarlo in Europa e gli consegnò un copione da attore protagonista. Una sceneggiatura, durata otto anni e divisa in due atti, che si chiude oggi regalando al popolo biancoceleste l’ennesimo kolossal di una storia ultracentenaria.
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Felipe Anderson dice addio alla Lazio
La prima battuta, Felipe Anderson, la fece ad Auronzo di Cadore. Arrivava da comparsa, quasi un oggetto misterioso. Sbarcò in Italia il 9 luglio 2013, qualche giorno dopo in ritiro. “Sono felice, questa maglia è un sogno per me” disse a La Gazzetta dello Sport, prima di definirsi “un centrocampista a cui piace entrare nel vivo del gioco” nonostante qualche partita disputata da “punta, esterno o volante”. Una sorta di biglietto da visita per un calciatore talentuoso ma acerbo, consapevole che in Europa non si rifiuta nessuna zolla del campo: l’importante è giocare.
Tuttavia, allenamento dopo allenamento, fu chiaro a tutti che il giovane brasiliano non aveva peccato di piaggeria. Aveva solamente detto la verità. L’arma più luccicante a sua disposizione è sempre stata la duttilità. Vladimir Petkovic e Edoardo Reja lo inquadrarono come esterno d’attacco. Fece fatica, scagliò dardi verdeoro ma non riuscì a trovare posto in pianta stabile. Fu Stefano Pioli a consegnargli la maglia da titolare, nel terzetto dietro l’attaccante. Ma, soprattutto, gli diede la facoltà di dare libero sfogo al talento. E quella versione di Felipe Anderson, capace di coast-to-coast entusiasmanti, lampi di classe e gol, forse, non si è più vista. Trascinò la Lazio ai preliminari di Champions League. In dieci partite fece vedere alla Serie A di cos’era capace. Per tutti divenne FA7, ma cambiò numero. E allora divenne FA10. Ma perse il tocco. La seconda stagione della “Piolazio” fu un patimento. A poche giornate dal termine, in seguito alla dura sconfitta nel derby con la Roma, l’allenatore emiliano fu esonerato. Arrivò Simone Inzaghi e Felipe traslocò ancora. Prima esterno a tutta fascia. Poi seconda punta, alle spalle di Ciro Immobile. Regalò al popolo biancoceleste una Supercoppa Italia, vinta contro la Juventus. Dopo emigrò. Andò in Inghilterra, al West Ham, e in Portogallo, al Porto, prima di rientrare.
L’avventura 2.0 alla Lazio iniziò con un altro allenatore: Maurizio Sarri. Il legame calcistico tra i due fu subito evidente. Il brasiliano tornò all’ala. Vestì, se così si può dire, i panni del Callejon. L’esterno sempreverde capace un po’ di tutto. Di entrare dentro al campo, attaccare la linea e, soprattutto, sfornare gol e assist a ripetizione. Il secondo Felipe Anderson romano era diverso: maturo, decisivo, cattivo. Il calciatore sonnolento, spesso disconnesso, e incapace di tenere accesa la luce del talento non esisteva più. Il gol all’Inter del grande ex Simone Inzaghi, fatto di un taglio caparbio e un colpo di testa intelligente, ne è stata la cartina tornasole. Più importante nell’economia della squadra. Più continuo. Forse meno esplosivo e appariscente. Ma, nel complesso, utile alla squadra. E questo Felipe Anderson è durato fino a stasera, con Tudor seduto in panchina. Quando, tra le lacrime e la commozione, ha raccolto l’amore dei tifosi biancocelesti. Ora tornerà in Brasile, andrà al Palmeiras. Chiuderà un cerchio durato 11 anni. Perché stavolta, diversamente dalla prima, non sarà un arrivederci. Ma un addio. Grazie, Felipe.
Daniele Izzo
@danieleizzo94
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