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CASIRAGHI: “Quando andai alla LAZIO mi voleva anche la ROMA. Il gol più bello? Al derby…”
L’ex attaccante biancoceleste aggiunge: “Gascoigne sembrava un attore di Benny Hill, ma in campo non scherzava…”
NOTIZIE SS LAZIO – Pierluigi CASIRAGHI ha rilasciato una lunga intervista al Guerin Sportivo commentando la sua avventura con la LAZIO. L’ex centrvanti biancoceleste ha iniziato dal suo trasferimento nella capitale:
Modi e tempi inusuali per il trasferimento del centravanti della Nazionale. Come mai? “Non lo so. Avevo fatto la preparazione con la Juve, anche le amichevoli. Per il sottoscritto era tutto nella norma. C’erano voci su di me, non solo la Lazio, ma anche la Roma pareva volermi. Il 5 agosto ecco la svolta, con una trattativa che si chiuse in poche ore.
Che ricordi hai di quel giorno? “Eravamo a casa di Boniperti. Nel suo ufficio c’era Cragnotti, il presidente della Lazio. Io ero in un’altra stanza con il mio agente Oscar Damiani. Una situazione surreale, come quando sei fuori dall’ambulatorio del medico e aspetti l’esito degli esami. A un certo punto apparve Cragnotti sorridente. Con lui firmai subito il nuovo contratto e volai a Roma, letteralmente”.
A proposito di Cragnotti: ti saresti aspettato tutto quello che è emerso anni dopo?“Francamente no e faccio fatica a comprendere, visto che il presidente l’ho conosciuto. Persona pacata, presente, discreta. Nel tempo ha delegato molto, ha creato una struttura moderna. Era un buon esteta del calcio, una via di mezzo tra Boniperti, come capacità manageriali, e Moratti per come si affezionava ai giocatori. La cosa che mi addolora è che nella vicenda della Cirio ci abbiano rimesso tante persone, le vere vittime di tutto”.
Ma tu che idea ti sei fatto? “L’idea è che il peso della Banca di Roma (all’epoca anche sponsor della Lazio, ndr) fosse notevole sulla gestione societaria. Ti faccio un esempio per tutti: nell’estate del 1995 era già fatto il passaggio di Signori al Parma e il mio al Milan, non certo per motivazioni tecniche. E’ vero che ci fu la rivolta popolare, specie per Beppe, ma i trasferimenti saltarono per un sicuro intervento della Banca di Roma”.
Torniamo all’estate 1993: contento di andare alla Lazio? “Si, alla Juve non c’era più spazio, volevo giocare, anche in vista dei Mondiali. E’ stato un vantaggio per tutti”.
Il primo ricordo di Roma qual è? “I colori, una vera esplosione di colori, grazie anche al sole di agosto. Una sensazione magnifica”.
Alla Lazio ritrovavi Zoff. “Il mio primo allenatore alla Juve. Una bella cosa, certo. Ma ancora meglio era la rosa di quella squadra, una delle cosiddette sette sorelle, che poteva ambire allo scudetto. C’erano Signori, Winter, Di Matteo, Luca Marchegiani, Cravero, Fuser. Tutti nazionali”.
C’era anche Luciano De Paola, dichiaratamente di sinistra. “Un ragazzo simpaticissimo, alla Lazio ebbe qualche problema per via delle sue simpatie politiche, ma io credo che sport e politica debbano stare separati”.
All’appello manca un certo Paul Gascoigne. “Gazza (ride)! Uno dei compagni a cui sono ancora oggi più affezionato. Mi fa star male vederlo spesso in difficoltà, ma mi rincuora sapere che lotta, che non molla. Un uomo con il cuore e gli occhi di un bambino, generoso e genuino”.
Tutti vorremmo qualche pennellata su di lui. “Intanto ce n’è una personale. Ero in ospedale a Londra, dopo una delle prime operazioni al ginocchio infortunato nel 1998. Mi trovavo per combinazione nella stessa camera dove era stato ricoverato lui anni prima. Venne a trovarmi, lo fece per me. Io ricordo poco, ero ancora sotto anestesia. Mi confermò tutto mio suocero”.
Andiamo avanti. “Una volta ero all’aeroporto di Fiumicino ad attendere l’arrivo delle valigie. Gli si avvicinò un bambino, suo grande tifoso. Allora lui prese il carrello dei bagagli, ci mise sopra il bimbo e gli fece fare le corse in tutto l’aeroporto. Non contento, quando arrivò la sua borsa, gliela regalò, con tutto ciò che c’era dentro, compreso le scarpette dentro”.
E da compagno di squadra? “Era un attore alla Benny Hill, fantastico. Appioppava soprannomi a tutti, gli bastava pochissimo per cogliere i lati buffi delle persone, sia fisici che caratteriali. Parlava malissimo l’italiano, nomignoli tutti in inglese”.
La cosa più pazza che ha fatto? “Trasferta in pullman da Roma a Firenze. In una delle tante gallerie, Gazza si mise a sedere vicino a Zoff, proprio dietro il guidatore, e in quei pochi secondi nel tunnel si spogliò, rimanendo completamente nudo e impassibile accanto al mister. Avresti dovuto vedere la faccia di Zoff. Ma in campo non scherzava”.
Anche in allenamento? “Quando si allenava era serio. Aveva talento e forza. Solo a lui ho visto fare una cosa: saltare gli avversari in dribbling, facendo andare dritta la palla e lui muovendosi solo con il tronco. Gazza era un genio. Ma non c’era solo lui: il clima era veramente da caserma”.
C’eri anche tu ad allietare la truppa? “Io e Signori inaugurammo il chiodo della vergogna”.
Ossia? “Piantammo un chiodo nello spogliatoio al quale appendevamo gli abiti e le scarpe più brutte. Tra le vittime c’erano più spesso gli stranieri e tra questi lo svizzero Gottardi che, in piena estate, si presentò con degli scarponcelli con pelo”.
Di Signori che mi dici? “Non ho mai visto nessuno con la sua rapidità d’esecuzione e il suo fiuto del gol. In quella Lazio aveva l’incidenza che ha Messi nel Barcelona. Negli anni in cui io, lui e Boksic abbiamo giocato insieme abbiamo segnato più di 100 gol. Anche Alen era un tipo eccezionale, una bestia”.
Certo, quando nel novembre 1993 è arrivato a Roma non hai fatto salti di gioia: “E’ una storia buffa, in effetti. Ad agosto vado alla Lazio perché alla Juve non c’era posto e a novembre rischio di ritrovarmi nella stessa situazione. Non nego che all’inizio ho visto il cielo scurirsi, poi per fortuna le nuvole sono sparite”.
Merito di chi? “Mio di sicuro, perché non sono uno che si abbatte, ma che lotta. E poi ci si mise molto Zeman, che arrivò sulla panchina della Lazio l’anno dopo, nel 1994”.
Con lui hai toccato i picchi più alti, perché? “I motivi essenzialmente sono due: la sua preparazione atletica e il suo sistema di gioco. Io credo che gli allenatori si dividano in due categorie: quelli che ti insegnano qualcosa e quelli che non ne sono capaci. Zeman è della prima schiera, come i Mino Favini, i Sergio Vatta. Un maestro di calcio, merce rara”.
Tutti ricordano un Lazio-Fiorentina 8-2, con poker di Casiraghi, 5 marzo 1995. “Erano sessant’anni che un giocatore della Lazio non faceva quattro gol in una partita. Ma il momento più esaltante fu il primo gol nel derby, il 23 aprile 1995, in rovesciata sotto la Curva Sud. Alla viglia avevo scommesso con un amico che non avrei esultato. Ho resistito una decina di secondi, poi sono scoppiato. Riscattammo la pesante sconfitta dell’andata”.
Le cronache dell’epoca parlarono di un ammutinamento della squadra nei confronti di Zeman. “E’ vero. E qui sta uno dei limiti del mister, la sua poca elasticità. Il derby romano è una sfida terribilmente sentita. Non è una partita come le altre. L’atmosfera, lo stadio, le bandiere, gli striscioni, il botta e risposta tra le curve. Una cosa indescrivibile. L’effetto benefico dura per intere settimane. E siccome all’andata si era perso 3-0, al ritorno volevamo vincere a tutti i costi”.
E ci fu lo sciopero bianco: “Semplicemente giocammo un calcio più accorto, coi terzini meno arrembanti e noi d’attacco più corti. Aspettammo la Roma a centrocampo e colpimmo. Si vinse, ma il martedì Zeman si incazzò di brutto. Se la prese con Rambaudi. Purtroppo il mister ha sempre dimostrato una rigidità che non gli ha mai giovato”.
Ricordi altri casi? “Un martedì rimproverò a muso duro Boksic, autore di un gol fantastico, perché avrebbe dovuto fare un’altra giocata. Un’altra volta lo convincemmo a eliminare la doppia seduta del venerdì, ma la domenica dopo perdemmo e lui: ‘Visto? Venerdì si torna a fare due allenamenti’. Ma in ciò che si dimostrava meno elastico era la cura della fase difensiva”.
Nesta con il braccio alzato a chiamare il fuorigioco al di là della linea di centrocampo.“Proprio così. Il guaio era che dopo un po’ di risultati negativi, lo spogliatoio cominciava a rumoreggiare, la squadra perdeva fiducia e le cose che prima riuscivano con naturalezza diventavano sempre più complicate. Peccato: abbiamo raccolto meno rispetto a quanto seminato nei suoi tre anni alla Lazio”.
Nel 1997 al posto di Zeman arriva Eriksson con Roberto Mancini. “Roberto ha portato a Roma tutta la sua classe e la sua enorme personalità. A volte ingombrante, anche se a me non ha dato fastidio”.
E il nuovo mister? “E’ l’unico allenatore con cui ho avuto qualche problemino. Mi tenne spesso fuori, talvolta in modo poco lineare. Di lui, comunque, mi piace ricordare il coraggio dimostrato nel derby del novembre 1997. Primo, perché mi mise titolare tenendo fuori Beppe Signori. Poi perché all’espulsione a inizio partita di Favalli, non tolse una punta (e sarebbe toccato a me), ma un centrocampista. Vincemmo 3-1, io realizzai il 2-0 con una semirovesciata”.
E così sei entrato nel cuore del popolo laziale. “Beh, quello è stato uno degli ultimi sigilli perché il feeling con i tifosi c’è stato fin da subito. Non sono un leccaculo, né vado a esultare ruffianamente sotto la curva. Per me conta il campo. Lì do tutto, non mi risparmio. Credo che il tifoso laziale, cos’ come quello granata, apprezzi soprattutto questo nei giocatori”.
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