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Le urla della vergogna polacca
IL TEMPO (S. De Meo). Le testimonianze, alcune raccapriccianiti, di chi dall’inferno di Varsavia è riuscito a scappare o ad essere liberato dopo qualche giorno…
RASSEGNA STAMPA SS LAZIO- Non si sblocca la situazione per i 22 tifosi biancocelesti ancora prigionieri nel carcere di Varsavia. In questi giorni le testimonianze di quelli che invece sono riusciti a tornare a casa si sono rincorse in maniera frenetica e sono spesso assurde e mostrano un trattamento del tutto disumano in certe occasioni da parte della polizia polacca. Nell’edizione odierna del ‘Tempo’ possiamo leggere alcune di queste dichiarazioni.
Stefania Pellegrino: «Mi hanno caricata su una camionetta e volevano chiudermi in una sezione separata dagli altri, una specie di gabbia. Sono scoppiata in lacrime e, per fortuna, vedendomi così, hanno deciso di farmi uscire da lì e mettermi accanto a una poliziotta. Arrivati in caserma, ci hanno tenuto lì in attesa per ore senza che accadesse nulla. C’era un poliziotto che mi rideva in faccia, ci prendevano in giro e quando gli chiedevamo perché fossimo lì ci dicevano che non lo sapevano. Dopo qualche ora hanno cominciato a farci foto segnaletiche e a prenderci le impronte digitali. Ero spaventata, mi veniva da piangere, ero l’unica donna. Sarei stata separata dal mio fidanzato ed ero destinata a rimanere sola in cella. L’idea di rimanere rinchiusa e da sola era destabilizzante. Avevo paura che potesse succedere qualcosa, che qualcuno potesse toccarmi. Ho supplicato il poliziotto che mi accompagnava di non chiudermi là dentro, soffrendo di claustrofobia ma quello non mi ha ascoltato. Lo sconforto era tanto, provavo a chiamare qualcuno, a bussare, ma nessuno è mai venuto da me. La cella era quello che era, la finestra era piccola, c’erano due tavole di legno per appoggiarsi, non mi è stato dato nulla né una coperta, né un cuscino. La mattina avevo avuto anche una crisi di panico, ma mi sono rifiutata di andare in ospedale, non mi fidavo. Ho chiesto loro un un po’ d’acqua, ma loro mi hanno portato un bicchiere d’acqua bollente, di quella che si sua per fare il thé». Stefania , mamma di Leonardo: «Lo hanno denudato, insultato e deriso; è tornato a casa ma sta malissimo. Non dorme, ha perso tre chili e pensa costantemente ai suoi amici».
Annalisa Compagno, mamma di Federico D’Alessandro: «In tutto questo periodo l’ambasciata ha minimizzato. Ci aveva assicurato anche per iscritto, via email, che i ragazzi sarebbero stati seguiti da funzionari, avrebbero avuto tutela legale e traduttori, che non c’era alcun bisogno di andare a Varsavia».
Alessio Castagna: «Avevamo fatto appena 200 metri, ho cominciato a sentire urla e ho visto la polizia caricare. Non so cosa sia successo davanti, io ero al centro del corteo. Molti si sono dispersi nei vicoli circostanti, ma la polizia ci ha fermato subito e ha messo me e gli altri spalle al muro per un controllo dei documenti. Dopodiché ci hanno fatto salire su una camionetta per spogliarci e controllare se avevamo armi. Con noi c’erano anche dei ragazzi polacchi, tifosi della Lazio, e tramite loro avevamo capito che forse saremmo stati trattenuti per un paio d’ore e portati allo stadio a partita già iniziata per evitare contatti con la tifoseria del Legia». Finiscono, invece, in commissariato dove così vengono accolti dal funzionario: «Questo signore ha preso alcune buste dove erano raccolte le nostre cose (cellulari, orologi, portafogli ecc.), le sollevava e poi le faceva cadere a terra. Una chiara provocazione, per fortuna a nessuno di noi sono saltati i nervi, neanche a un ragazzo al quale era stato tolto il cappello con una certa energia».
La detenzione è aberrante. «Cibo e acqua? Da bere c’era l’acqua del bagno, da mangiare qualcosa che io non mi sono azzardato a toccare per non sentirmi male, non so cosa fosse credo un insaccato che, però, era inguardabile e immangiabile. Per appoggiarsi ci davano dei cuscini che, però, ci venivano tolti alle sei di mattina. I bagni erano terribili».
Dopo settantadue ore, arriva la liberazione. «Abbiamo firmato questo foglio in polacco, ci siamo accollati queste accuse, tutto pur di uscire da quel carcere. Dovevamo pagare una multa, ma questa si è estinta dato che avevamo già fatto tre giorni di carcere. In questo modo loro si sono anche riparati da eventuali ricorsi, noi ora non possiamo più impugnare le sentenze e o fare ricorso. Naturalmente è stata una farsa, a noi non è stato assegnato neanche un avvocato d’ufficio per avere la possibilità di difenderci».
Luca: «Un agente ha preso di mira un ragazzo minorenne seduto vicino a me: ‘Hai paura? Ora facciamo bunga bunga come Berlusconi e poi finisci in galera’, gli diceva in inglese. Era impossibile anche dormire perché facevano rumore per tenerci svegli. E poi mi hanno sbattuto in isolamento».
Francesco: «Mi hanno trattenuto fino alle 5 del mattino, poi mi hanno trasferito in un carcere a trenta chilometri da Varsavia».
Marcella Gazzerea: «In aula, il giudice ha intimato a mio figlio e agli altri di dichiararsi colpevoli, perché così facendo la vicenda sarebbe finita lì, con il pagamento di una multa (da 400 a 200 sloti, circa 55 euro) anche ridotta perché già avevano passato una notte in carcere. Siamo stati costretti a scegliere il male minore, in quanto il giudice era stato chiaro: se si fossero dichiarati innocenti, allora sarebbero andati a processo e i tempi si sarebbero allungati. Di quanto? Alessandro avrebbe dovuto aspettare, chiuso in cella, almeno lunedì e quindi passare altre tre notti in carcere. L’Ambasciata si doveva muovere prima, questi ragazzi non dovevano andare a processo e neanche dall’Italia si è fatto sentire nessuno».
Gianni Stazi, padre di Damiano: «Mio figlio è finito in una cella con un pregiudicato serbo condannato a quindici anni di reclusione. Io ho paura, potrebbe violentare Damiano».
Andrea Mazzonna: «Sono stati scandalosi. Nessuno ci ha aiutato Non si può abbandonare dei ragazzi connazionali in questo modo».
Federico Lobina: «Ci hanno portato in un angolo buio, chiuso da una parte e dall’altra dall’arrivo di circa 5 camoniette per parte, dalle quali è scesa una quantità spropositata di agenti rispetto al nostro numero effettivo. Ci hanno lasciato lì per due ore e mezza al freddo, uno per uno ci hanno fatto salire in una sola camonietta di tutte quelle a disposizione e hanno effettuato le stesse perquisizioni che poi ci avrebbero riservato pure allo stadio (le ragazze sono state addirittura denudate)».
Giorgia Baldazzi: «L’ambasciata italiana a Varsavia era totalmente impreparata ad affrontare la situazione, anche per numero di impiegati, non avendo idea dei tempi dei processi, delle eventuali pene, e sconsigliando addirittura ai genitori di recarsi nella capitale polacca».
Davide D.: «Mi hanno fatto l’ispezione anale, come con i trafficanti di droga. Chiedevo acqua dicendo ‘water, water!’, ma niente… hanno costretto un altro ragazzo a fare le flessioni, le ha fatte nudo. Ho capito cos’è il terrore».
Federico: «C’erano dodici camionette pronte ad attenderci, è stato un agguato. Insieme ad un altro amico, Stefano, mi sono allontanato ed ho provato ripetutamente a chiamare con il mio telefono cellulare l’Unità di Crisi della Farnesina e l’Ambasciata italiana. Non rispondeva nessuno».
Mirko Borghesi: «Come ai tempi del regime comunista mi sono ritrovato nel ben mezzo di una vera e propria repressione di gruppo dalla quale mi sono salvato solo ed unicamente grazie al mio inglese e ad un pass stampa con il quale sono stato ‘scortato’ verso l’entrata A1».
Andrea Ottavi: «Hanno tirato fuori i manganelli spagnoli. Correndo più avanti, ci siamo avvicinati a un negozio, abbiamo alzato le mani, eravamo in cinquanta. Non ci hanno toccato. Siamo stati tutti messi per terra, in ginocchio e ammanettati. Nessuno aveva fatto niente. Hanno finito pure le manette. A me sono toccati dei lacci neri. Fastidiosissimi, perché neppure puoi allargare le braccia. Porto ancora i segni. Uno per uno ci facevano alzare e ci perquisivano. Ci hanno tolto tutto, anche il telefono cellulare. E ci hanno ripreso con le telecamere, hanno fatto un video a tutte le facce nostre. Senza saltare una persona. Anche a un signore di 40 anni con la moglie. Hanno arrestato tutti».
Rodolfo: «Erano circa settanta o ottanta persone, io sono riuscito a defilarmi, ma ho visto scene terribili. La polizia ha iniziato a picchiarli, ma nessuno aveva coltelli come è stato raccontato dalle forze dell’ordine polacche».
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