INTERVISTE
Martini:” Il modo in cui abbiamo vinto ci ha reso immortali. Vincenzo fu l’anello mancante”
MARTINI D’AMICO INTERVISTA – Una Lazio romanzesca, guidata da una “banda di matti”, rivali in allenamento ma indomabili fratelli in campo. Ecco le dichiarazioni in esclusiva su Lazionews di Luigi Martini, uno degli eroi di quella gloriosa squadra vincitrice dello scudetto nel 1974, ed il pensiero a Vincenzo D’Amico, compagno di avventure, dentro e fuori dal campo.
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ESCLUSIVA LN | Luigi Martini, la “banda di matti” ed il ricordo di Vincenzo D’Amico
Nel 1974 avete regalato alla Lazio il suo primo scudetto. Come ti spieghi che ancora oggi, dopo 50 anni, ancora tutti lo ricordano?
“Sono fortemente convinto che non è stata la vittoria del primo scudetto di per se, ma come è stato vinto, grazie a quali personalità. E’ come uno spettacolo con un copione recitato da attori, che eravamo noi. Eravamo divisi in clan, facevamo a botte ogni giorno agli allenamenti, avevamo le armi, eravamo anti conformisti. Le squadre forti come Milan, Inter, e Juventus andavano già in giro con la divisa, avevano un team manager e i massaggiatori. Noi andavamo in giro con scarpe da tennis, jeans e giacchetto, quando uscivamo, facevamo a botte con i tifosi della Roma. Questo contesto è quello che ha determinato l’immortalità di quello scudetto. Abbiamo vinto contro tutto e tutti, gli arbitri, gli Agnelli della Juventus, la federazione. Questo ha fatto in modo che ogni padre lo raccontasse al figlio”.
In allenamento eravate rivali, ma dentro al campo vi difendevate l’uno con l’altro. Questo sentimento da cosa veniva?
“Eravamo veri e propri rivali. Gli infortuni che avvennero, ce li provocavamo tutti in allenamento. Eravamo gli uni contro gli altri, uno non poteva entrare nello spogliatoio opposto, era un nemico. In campo però avveniva qualcosa di magico che non abbiamo mai compreso: quando c’era da lottare con l’altra squadra, quello diventava il vero nemico, non più un semplice rivale. Eravamo affratellati e anche per questo abbiamo appassionato tutti i tifosi e la nostra storia è stata tramandata nel tempo”.
A quei tempi il calcio era diverso e quella Lazio una storia unica. C’è un ricordo o un aneddoto di quei tempi che non hai mai avuto l’occasione di raccontare ?
“Ce ne sono tantissimi. Parlando di Vincenzo, lui aveva molte ragazze che gli giravano intorno. Il sabato sera scappava per andare a trovare la sua ragazza, ma non doveva farsi vedere da Maestrelli. Ma quando un giorno si accorsero che era sguinzagliato, ad un certo punto Chinaglia disse: “Mister, ci vado io! lo prendo io per l’orecchio e lo riporto”, in realtà non andò a cercarlo, ma se ne andò al Jackie O’ (ride ndr.)”.
Quella Lazio è stata una delle storie più romanzesche del calcio, ma purtroppo anche piena di dolore. Per questo hai deciso di smettere di giocare e dedicarti ad altre passioni?
“Siamo stati messi alla prova all’ordine del giorno dalla sfortuna. Ogni tanto passa e mena a tutti noi, ma va bene così. Vale la pena in ogni modo. Vale la pena per aver vinto lo scudetto, per essere stati e continuare ad essere l’eco dei tifosi della Lazio. Tutto va come vuole il destino. Ho deciso di smettere perché ad un certo punto ho perso la spinta che ci vuole per essere un calciatore all’altezza. Ho ritenuto giusto andare via per non deludere, è meglio uscire quando sei in alto che cadere ed essere portato via a braccio”.
Con Vincenzo D’Amico c’era un rapporto speciale all’interno degli spogliatoi. Che ricordo hai di lui?
“Vincenzo è stato l’anello mancante del primo anno. Lui arrivò l’anno dello scudetto, tant’è vero che con lui vincemmo a mani basse. Ma il primo anno lo perdemmo perché non c’era uno come lui. Noi avevamo tecnicamente difensori di ottimo livello, anche centrocampisti e registi, ma mancava uno che avesse la classe e la fantasia di Vincenzo che potesse chiudere la partita già dal primo tempo. Vincenzo ha portato a quella squadra la classe come erano Gianni Rivera o Bruno Conti. E’ stato di una grande intelligenza, si è visto molto giovane proiettato in uno spogliatoio che sembrava una legione, la tensione era alta, ma lui si spogliava da una parte e poi passava dall’altra per fraternizzare. Non si è mai schierato e ciò dimostra la sua intelligenza. Diventò intoccabile, inamovibile ed essenziale”.
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Benedetta Scatena
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